“Tutto quello che noi
viviamo (malattie, conflitti con gli altri e situazioni spiacevoli) dipende da
imprinting inconsci e programmi presi dal collettivo, specialmente quello
familiare.”
La nostra Vita è un viaggio che passa attraverso moltissime
esperienze, alcune più vicine alla nostra idea di come le cose devono andare,
altre ben diverse dai nostri modelli di perfezione. Mentre ci siamo dentro
abbiamo una visione limitata di quello che avviene: non sappiamo dove a lungo
termine ci porterà l’esperienza, quali solo le qualità che svilupperemo da lì,
né quali comportamenti ci hanno portati lì e da quali forze siamo stati spinti
ad attuarli. Ad esempio, quando affrontiamo una situazione difficile, siamo così
pervasi dal dolore da perdere di vista che il nostro modo di essere attuale
deriva dalle difficoltà del passato. Molte persone hanno irrisolti con i
genitori, conflitti, si lamentano di loro e perdono di vista che grazie alla
loro assenza hanno sviluppato la forza di farcela da soli e l’indipendenza,
grazie al sovraccarico di responsabilità hanno imparato a diventare adulti e
come queste molte altre qualità. Comunque noi siamo adesso lo dobbiamo alle
esperienze del passato, a quello che abbiamo vissuto e che c’ha permesso di
svilupparci come siamo. Allo stesso modo, ciò che viviamo oggi, ci renderà ciò
che saremo tra dieci anni. Ogni situazione, ogni guadagno e ogni perdita, tutte
le scelte che siamo chiamati a fare, ci aprono nuove possibilità di esperienza.
Al tempo stesso perdiamo di vista come qualsiasi cosa stiamo vivendo adesso è
il risultato delle nostre scelte del passato, dei nostri desideri, delle nostre
paure, degli imprinting personali e familiari che ci hanno guidati a provare
attrazione per qualcosa, repulsione per qualcos’altro. Nella pratica questo
significa che se stiamo vivendo una dolorosa separazione da una persona, è
soltanto perché abbiamo scelto di accogliere proprio lei nella nostra vita. In
questo potrebbe averci mosso il bisogno del suo amore, della sua dolcezza,
della sua comprensione, oppure della sua bellezza fisica. In questi lati che ci
hanno attratto di lei era però già insito il finale: se l’abbiamo scelta per
appagare un bisogno infantile è possibile che abbiamo iniziato a comportarci
come bambini, allontanandola. Se era per non vivere la solitudine che l’abbiamo
scelta, avremo sicuramente preteso che non ci lasciasse mai soli e l’avremo
così soffocata. Se era per le belle parole degne di una favola, dette
sicuramente con leggerezza, con la stessa superficialità con cui le diceva avrà
smesso di dirle e ciò sicuramente ci avrà ferito. Nel caso in cui, invece, di
lei ci attraeva la bellezza e la cura che aveva per il suo corpo, è facile che
chiedesse molto a sé stessa e quindi anche a noi, finendo per risvegliare le
insicurezze che averla a fianco aveva inizialmente inibito. Quindi, in sintesi, cos’è la vita? È un
palcoscenico in cui rappresentiamo i nostri drammi, i nostri vuoti in forma di
desideri, vedendo a cosa quei movimenti ci portano. Qualunque comportamento ha
le sue conseguenze, limiti e vantaggi, così recitando quei copioni ci
scontriamo contro le loro conseguenze. I copioni non li abbiamo scritti
consapevolmente e per questo, quando viviamo le situazioni che ne derivano,
finiamo per pensare alla sfortuna e malediciamo il fato. A questo punto abbiamo
una scelta: continuare a prendersela con gli altri e con la vita senza cambiare
realmente i copioni, oppure permettersi di vedere l’origine dentro di noi e
lasciarla andare. Dal mio punto di vista la vita serve proprio a questo, a
vedere gli imprinting e le memorie che ci portiamo dietro, le quali gestiscono
dall’ombra dell’inconscio la nostra intera vita.
Se per gli eventi tutto questo è piuttosto facile da
comprendere, difficile è contestualizzare anche le malattie in questo quadro.
La parola malattia porta con sé un carico emozionale potente, è di per sé
un’informazione forte, in quanto nasce dalla radice “male”. Ma siamo così
sicuri che la malattia sia un male? Ciò presuppone di sapere cosa sia
effettivamente e allora la domanda è ancora un’altra: siamo davvero sicuri di
sapere cosa sia la malattia? Se andiamo oltre le interpretazioni, e cerchiamo
di vedere le cose per come realmente sono, i disturbi fisici sono modificazioni
di tessuti. E perché i tessuti si modificano? Siamo proprio sicuri che sia il
corpo ad impazzire o siamo noi a non capirne le logiche? Le Bio-Logiche? Il
termine bio significa vita, quindi biologia significa proprio logica della
vita. Noi uomini supponiamo di sapere tutto, quando abbiamo invece solo una
serie di convinzioni, le quali ci mantengono in circoli viziosi. Non è colpa
nostra, né di nessun’altro, si tratta di un meccanismo uguale per tutti e dell’abitudine
a prendere tutto quello che ci viene detto e reputarlo realtà assoluta. È una
forma di fedeltà, a idee che non sono nemmeno nostre e che per altro mutano di
continuo. Uscire da questo meccanismo e iniziare a porsi le domande è il primo
passo per cambiare la nostra vita. Le malattie non sono altro che una
modificazione di tessuti, che seguono delle leggi ignote alla maggior parte
delle persone, ma effettivamente sensate. I nostri tessuti sono nati in
miliardi di anni di evoluzione e portano in loro tutte quelle esperienze, che
li hanno sempre di più migliorati, strutturati, fino a renderci come
attualmente siamo. Ogni tessuto nasce con delle funzioni, quelle indispensabili
per sopperire a un bisogno istintivo. I bisogni sono quattro come i foglietti
embrionali, ossia i gruppi di tessuti atti ad adempiere a quelle funzioni.
Nutrimento, Protezione, Strutturarsi in modo da adempiere sempre meglio a
queste funzioni e Vivere in relazione agli altri. In questi quattro bisogni e
nei relativi tessuti si trova la storia dell’umanità. Il bisogno più antico è
quello di nutrirsi e nel corso dei millenni, le pari preposte a svolgere questa
funzione, si sono specializzate per riconoscere il cibo, prenderlo, digerirlo,
estrarne il nutrimento, espellere gli scarti e fargli compiere tutti i
movimenti che permettono queste azioni. Questo tessuto primordiale, gli organi
e le parti che compone, conservano quelle funzioni che sono state affinate
lungo il corso dell’evoluzione. Lo stesso vale per tutti gli altri tessuti,
intrisi di programmi che ne dettano il funzionamento ordinario e quello
straordinario. Se ci troviamo in una situazione non ordinaria, quindi le
naturali funzioni non sono sufficienti a rispondere al bisogno del momento, la
natura ha un piano b: la modificazione di quei tessuti. Non voglio dilungarmi troppo
sull’argomento, ma consiglio di approfondire attraverso lo studio delle Cinque
Leggi Biologiche di Hamer, molto importanti per comprendere come funziona il
nostro corpo fisico. I tessuti si modificano in modo anomalo, quindi, dal
momento che le funzioni normali non sono sufficienti ad appagare il bisogno
istintivo che sentiamo. Ad esempio, il raffreddore, altro non è che una
riparazione di tessuti che erano stati modificati quando abbiamo sentito che
qualcosa della situazione ci puzzava, che i bocconi (siano essi di cibo reale o
percepiti, come notizie, regali, consigli o qualsiasi cosa ci venga offerto)
potevano essere “commestibili”. In quel momento avviene una lacerazione atta,
teoricamente, a farci sentire meglio la natura del boccone. Il naso, infatti,
non serve solamente a respirare, ma compie una vera e propria analisi chimica,
atta a discernere ciò che è buono da assumere e cosa invece non è
biodegradabile. I tessuti, però, non sono modificati dalla realtà oggettiva, ma
dal nostro percepito, che attiva le aree del cervello preposte a governare i
tessuti. Allo stato attuale delle cose la nostra sopravvivenza non è più
minacciata realmente, non come poteva esserlo nella preistoria. Adesso, questi
programmi, vengono attivati molto spesso quando non c’è effettiva necessità biologica
e ciò presuppone una scelta: lavorare sul nostro percepito o cadere di continuo
nei conflitti sviluppando disturbi fisici. Chi si ammala, quindi, vive i limiti
del suo percepito e degli imprinting che lo dettano. Il modo in cui
istintivamente percepiamo le cose non è uguale per tutti, bensì affonda le
radici nelle memorie registrate nel passato e dalla cui matrice filtriamo le
condizioni attuali. Sono quindi, di nuovo, queste impronte istintive a
determinare la nostra salute o malattia.
I conflitti con gli altri sono poi chiaramente influenzati
dal nostro passato e dagli imprinting familiari. Se durante la nostra infanzia
abbiamo vissuto un abbandono, sarà molto difficile riuscire a camminare verso
chiunque si parerà di fronte a noi e attenderemo sempre che sia lui a venire da
noi, incontro ai nostri bisogni, ma anche se lo farà avremo forti resistenze e
non riusciremo a fidarci della sua presenza. Un moto di protezione inconscia ci
porterà ad allontanarlo, mentre a livello manifesto ci sembrerà di fare
l’opposto, ossia cercare di tenerlo a noi. La mancanza d’amore, di attenzioni,
il tradimento e il soffocamento della nostra libertà vissuti da bambini, ci
mettono nelle condizioni di rivivere sempre le stesse situazioni. Sono copioni
già scritti, che in automatico recitiamo, senza nemmeno rendercene conto. Il
problema di questi copioni è che fondamentalmente contengono già anche il
finale e se li eseguiamo la storia si ripete. Essi dettano la nostra intera
visione del mondo: paure, sensazioni, emozioni, pensieri e la ricerca di
continue conferme, che senza accorgercene siamo noi a creare. Identificandoci
con tutte queste cose, cadendo in quel percepito, siamo automaticamente portati
ad agire in un certo modo, che genera delle conseguenze. Lascia che te lo
ripeta in modo più chiaro: le memorie inconsce dettano il percepito, il
percepito diventa pensiero e il pensiero diventa azione. E poiché ad ogni
nostra azione corrisponde una reazione dell’altro, i conflitti non tarderanno
ad arrivare. Non sono solo i nostri imprinting e le nostre ferite a generare
conflitti, ma anche la fedeltà alla famiglia. Nella famiglia d’origine ci sono
state proposte idee, valori, convinzioni e ammonimenti, che hanno attualmente
un peso dentro di noi. Nella famiglia abbiamo ricoperto un ruolo, che non
sempre era veramente il nostro, quello di figli. Spesso ci siamo occupati dei
nostri genitori, abbiamo imparato ad amarli diventando i loro fratelli, i loro
genitori, perdendo la consapevolezza del nostro posto. Così, ovunque andremo,
non sapremo più qual è il nostro posto. Continueremo a riempire i vuoti di
chiunque incontreremo, fino a quando non cambieremo la nostra visione, riconoscendo
che non esiste vuoto da riempire e che nessuno può essere sostituito, a
prescindere dal suo destino. Fratelli abortiti, nonni, zii non nati, hanno il
loro posto e nessuno può recitarne realmente il ruolo, non senza conseguenze.
Non sentirsi visti, non essere liberi di esprimersi, non avere un ruolo reale e
fisso che venga riconosciuto, arrivando a perdere energia, sono tutte cose tipiche
di questi casi. Inoltre i modelli familiari hanno un peso notevole: se la
relazione tra i nostri genitori era in un certo modo, se ci siamo preoccupati
per loro, schierati con un genitore contro l’altro, andremo a ricercare
situazioni e persone simili a loro, oppure al genitore escluso. Oltre a tutto
questo, come accennavo, portiamo dentro di noi tutte le idee di chi è venuto
prima, che abbiamo preso per appartenere al gruppo. Ciò comporta che, nel
contatto con gli altri, tenderemo ad ammirare ciò che nel nostro gruppo era
ammirato e giudicare i comportamenti che esulano dai nostri valori.
Le situazioni spiacevoli che incontriamo nel nostro viaggio
di vita appaiono casuali e spesso le malediciamo, senza renderci conto che
appagano parti molto profonde di noi. Siamo solito identificarci con una sola
parte per volta, negando tutte le altre, che comunque albergano in noi. Ad esempio,
spesso, ci lamentiamo perché non abbiamo un lavoro che ci piace, ma al
contempo, interiormente, sentiamo di non meritarlo. Pur quanto diamo voce ad
una parte, l’altra comunque emerge nei nostri gesti, negli sguardi, nelle
posture, comunicando precise informazioni durante i colloqui di lavoro in cui
si attiva. Mentre siamo in ufficio, a parlare con il titolare di un’azienda che
ha un buon posto da offrirci, la parte del “non lo merito” si attiverà e
genererà ansia, pressione, che ci muoverà nelle azioni impedendoci di dare il
meglio di noi. Alla base di quella convinzione inconscia c’è un mondo, una
motivazione, tutt’altro che banale e da valutare caso per caso. Potrebbe essere
legato ai valori acquisiti dalla famiglia, alla sensazione di non avere la
benedizione dei nostri genitori per realizzarci, oppure a dei sensi di colpa
esistenziali. In altri casi, quello che riviviamo, non è nemmeno un destino
nostro, ma camminiamo in impronte tracciate da altri. I meccanismi per cui ci
facciamo carico dei destini degli altri possono essere molteplici, ma in
sostanza esiste una forza che ci muove dal profondo e che mira a dare
riconoscimento a tutte le persone appartenenti al branco familiare. Questa
forza agisce attraverso di noi, muovendoci per mezzo di automatismi, che ci
pongono nelle condizioni di replicare il destino di un escluso e farlo
riconoscere attraverso di sé, attraverso la propria rappresentazione. In questo
caso è come se recitassimo un copione di altri, un copione che ci porta a
creare un destino predeterminato. Il motivo per cui tutto questo avviene
coincide con lo scopo: far vedere quella persona che è stata esclusa, derisa o
dimenticata, perché morta. Tutte queste persone, infatti, sono connesse a noi,
sono parte di noi e questa è una realtà. Se tale realtà non viene riconosciuta
ed i familiari si sono illusi di poter negare l’appartenenza, oppure il destino
di una persona, ecco che esso si ripresenta. Tutto questo è stato oggetto di
studio da parte di Hellinger, il padre delle Costellazioni Sistemiche
Familiari. Anche le convinzioni tramandate di generazione in generazione sono
spesso freni alla realizzazione, in quanto matrice per vivere delle sensazioni
a cui il corpo si adegua con le così dette malattie, oppure generatrici di
paure che ci mettono nelle condizioni di far accadere proprio quello che
temiamo. Se nella nostra famiglia ci sono stati uomini che hanno abbandonato le
donne, esse ci avranno cresciuto dicendo che gli uomini abbandonano, che sono
cattivi, così nel tentativo di formare una coppia avremo il terrore che avvenga
anche a noi. La diffidenza ci impedirà di metterci in gioco completamente,
saremo sempre diffidenti, ossessivi ed allontaneremo l’altro sempre di più, per
paura di soffrire. Così facendo arriverà il momento in cui l’altro se ne andrà
e noi diremo “avevo ragione a non fidarmi”, quando invece è stata proprio la
sfiducia tramandataci a generare l’evento. Ogni volta che prendiamo una
convinzione da altri, dalle loro esperienze, prendiamo anche dei meccanismi
comportamentali associati, delle emozioni e identificandoci con queste cose le
lasciamo agire, così divengono destino. Pensiamo che siano cose nostre, che
siano vere e di volerle trattenere per preservarci, mentre in realtà sono
proprio esse a sabotarci la vita. Incidenti, malattie, abbandoni, tradimenti e
più in generale qualunque evento spiacevole ha una matrice interiore,
inconscia. Questa constatazione non ci rende colpevoli, perché quegli eventi
non sono negativi e quindi qualcosa di cui colpevolizzarsi; inoltre queste
memorie le abbiamo prese senza rendercene conto e per amore istintivo.
L’io è solo l’apice di una gigantesca piramide inconscia, ma
non ce ne rendiamo conto perché egli si sente il mediatore. L’io cerca
continuamente di favorire alcuni programmi che ritiene funzionali e opporsi a
quelli che non gli piacciono, ma così facendo alimenta entrambi. L’io stesso
non è che l’identificazione con alcune memorie, impronte create
dall’esperienza, idee prese dagli altri per appartenere. Inoltre non esiste un
“io” fisso, bensì sono i programmi sottostanti a emergere uno alla volta,
assumendo il comando per un tempo limitato, per lasciarlo poi a un’altra parte
che si attiva successivamente. L’io, quindi, è come la vetta di una piramide,
una postazione più che un qualcosa di ben definito. E sotto ci sono molte
parti, ognuna formata dal contatto con una persona, con una situazione vissuta
da noi, oppure ereditata da altri. Con ogni persona, ad esempio, emerge un “io”
diverso. Quando siamo legati a una persona abbiamo con lui un patto inconscio
di fedeltà, il quale condiziona il legame. Istintivamente sappiamo cosa la
persona reputerebbe inaccettabile e cosa invece vuole da noi. Captiamo queste
informazioni e le registriamo nel nostro inconscio, costruendo un “io” apposta
per quella persona, per rapportarci con essa. Lo stesso avviene per ogni gruppo
di appartenenza, all’interno del quale captiamo le norme ed i comportamenti
utili a guadagnarsi una maggiore appartenenza. In alcuni gruppi sarà leggere e
studiare ciò che viene visto bene, mentre i passa tempo che esulano da ciò
verranno giudicati. In altri si metterà in luce chi dimostra la sua forza sugli
altri, con prepotenza e violenza, mentre i compassionevoli saranno ritenuti
stupidi e le persone di cultura viste come “secchioni” che sprecano il loro
tempo. Paradossalmente è possibile che gli io formati nei diversi gruppi
confliggano tra loro, anzi questa è la normalità. Appartenere alla famiglia
significa assumerne i valori, che spesso contrastano con quelli degli amici che
andremo ad incontrare dopo. Tutti esistono nell’inconscio contemporaneamente,
ma solo uno alla volta, quello attivato dalla situazione e dalle persone che
abbiamo intorno in questo istante, si traveste da “io”. Anche all’interno dello
stesso gruppo, ogni persona ha sfumature diverse nella morale e nelle
aspettative, che interiorizziamo rendendolo un ulteriore “io”. In tutto questo,
non è detto che siamo sempre accondiscendenti con queste parti, anzi spesso
entriamo in opposizione più o meno consciamente. Quando ci opponiamo in modo
consapevole è perché tale “io” confligge con altri presenti in noi, altri con
cui siamo maggiormente identificati e a cui teniamo di più. In altre occasioni,
però, questo non avviene consapevolmente e magari tocchiamo i limiti delle
morali dell’altro senza sapere cosa stiamo facendo, mettendolo davanti, magari,
all’unica cosa che non può tollerare e facendolo però non la massima innocenza.
In tutto questo, probabilmente, agisce un ulteriore “io” che vuole troncare il
legame, sia perché crede di non meritarlo, sia per paura, oppure per una
miriade di altre possibili motivazioni. In sintesi, quello che chiamiamo “io” non
è realmente un’identità, ma una sorta di ruolo, una divisa, indossata dal
meccanismo prevalente in quel momento e con il quale ci identifichiamo.
Oltre l’inconscio personale c’è quello Collettivo e detta
tutta la nostra vita. Mentre l’inconscio personale è composto di memorie, di
imprinting dati dalle informazioni catturate e rese la base su cui sondiamo la
realtà, esiste un altro immenso bacino: l’inconscio collettivo. Quest’ultimo
non è una cosa a parte rispetto a quello personale, bensì lo include e
inserisce in un contesto più ampio. Si tratta dello stesso meccanismo per cui
un comune si trova in una provincia, la quale non lo include, bensì lo include
in un contesto più ampio. Se il comune è l’insieme di memorie ed esperienze
personali, la provincia rappresenta benissimo il bacino di memorie familiari,
chiamato da Hellinger Sistema Familiare. Oltre quello familiare ne esistono
molti altri, che lo includono e al tempo stesso vanno oltre, come quello
nazionale, di etnia e di specie. Tutto questo è logico, così com’è logico che
la provincia non solo contiene i comuni, ma è contenuta a sua volta in una
regione, la quale è parte di una nazione, parte a sua volta di un continente.
In tutto questo il confine è solo politico, è solo un gioco mentale, una
convenzione sociale, mentre in realtà sono tutti parte di un unico mondo. Mi
rendo conto che rispetto al comune modo di pensare tutto questo possa apparire
distante, ma non è solo una speculazione filosofica. Ogni giorno facciamo
esperienza di tutto questo, di queste connessioni, ma non conoscendone le
dinamiche non sappiamo riconoscerle. La mia intenzione non è fare teoria, bensì
dare gli strumenti per comprendere cosa avviene in noi e poter fare scelte
diverse da quelle dettate dagli automatismi. Potremo paragonare questo
inconscio collettivo a un gigantesco scacchiere utile a memorizzare le esperienze
del singolo, mettendole a disposizione di chiunque venga dopo: questo è il
processo meccanico per cui esiste un’evoluzione della specie. Ognuno di noi,
sin dal concepimento, ha il suo posto in questo scacchiere e lì registra le sue
esperienze, che vengono trasmesse istantaneamente a chiunque appartenga a quel
bacino. Esse hanno un ordine temporale, infatti chi arriva dopo si muove sulla
matrice delle esperienze fatte da chi è venuto prima, impara da loro e ciò che
registra diventa matrice per chi viene dopo. Questo meccanismo, però, essendo
inconscio non ci muove tramite delle decisioni, non sono dati disponibili per
la razionalità, diventano bensì programmi istintivi e capaci di muoverci in
modo automatico, indipendentemente dalla consapevolezza. Attraverso
quest’ultima possiamo imparare a vedere queste spinte e non utilizzarle se non
quando serve, ma se non ne abbiamo coscienza tutto procede da solo. Tutto
questo è al servizio della sopravvivenza, ci mette nelle condizioni di sapere
come muoverci quando i dati personali sono insufficienti, oppure quando non
abbiamo il tempo per decidere, in quanto la situazione è immediata e richiede
quindi un intervento altrettanto immediato. Ad esempio, se camminiamo
normalmente, il movimento è meccanico e dettato da programmi ordinari, che ci
permettono di pensare indipendentemente dal movimento. La mente può influenzare
l’azione, decidendo l’andatura e il ritmo respiratorio, rendendolo più o meno
lento e profondo. Se cadiamo, invece, un meccanismo istintivo ci porterà a
pararci con le braccia, oppure a non farlo, ma la razionalità non ha il tempo
di decidere effettivamente come farlo. In quel caso scatta un programma di
sopravvivenza, il quale ci mette nelle condizioni di avere una reazione
funzionale alla situazione. Questo programma è nato sulla base di quanti hanno
fatto questa esperienza prima e di quanto la loro reazione è stata funzionale.
Quando l’esperienza è ripetuta molto e da molti, a quel punto entra a far parte
del bacino più ampio e quindi dell’intera specie. Un esempio di meccanismo
comune alla specie è quello di provare repulsione all’idea di mettere in bocca
ciò che da lì è uscito, ciò che è stato rigettato. Infatti, l’idea di bere la
propria saliva, anche se appena uscita dalla bocca ci disgusta. Eppure ingoiamo
la nostra saliva di continuo e si calcola che si tratti addirittura di una
media di un bicchiere al giorno. Dal momento che esce, però, ci appare orribile
l’idea di riberla e questo ci protegge dal mangiare ciò che vomitiamo, in
quanto boccone riconosciuto dall’organismo come velenoso. Adesso non passerebbe
per la mente di nessuno la possibilità di mangiare ciò che abbiamo rigettato,
ma è proprio grazie all’esperienza di chi c’ha preceduto che tutto questo è
diventato un programma così diffuso. Questi sono solo piccoli esempi
verificabili con l’esperienza, ma la stessa spinta istintiva che ci porta a
ritenere disgustosa l’azione citata (in quanto rischiosa), ci mette nelle
condizioni di percepire il mondo in un modo o in un altro, dettando la relazione
che abbiamo con tutte le cose: lavoro, soldi, amore, persone, gruppi, autorità,
forti, deboli e persino nei confronti di certi comportamenti. Non tutte quelle
che viviamo sono memorie di specie, bensì quelle che hanno più diretto contatto
con noi sono quelle familiari. Le esperienze fatte dalle persone che ci hanno
preceduto, le reazioni che hanno avuto, esistono in quel campo da cui
scarichiamo continuamente dati. Se loro hanno vissuto un pericolo noi vivremo
come tale ogni situazione che ha elementi simili, anche se ciò non significa
sia effettivamente un pericolo. Se la loro reazione è stata ritenuta funzionale
potremo aver adottato quella “soluzione” meccanica, se non lo è stata saremo
invece portati a rispondere in modo diverso. Dalla famiglia abbiamo quindi
ereditato ben più del colore degli occhi e dei capelli: l’intero modo di
percepire istintivamente la realtà e tutti i suoi elementi.
La percezione delle cose, il modo in cui le giudichiamo e le
battaglie che combattiamo quotidianamente non sono nostre. Non vediamo
realmente gli altri per come sono, né le situazioni, a causa del filtro
istintivo che ci permette di sopravvivere, ma non di vivere davvero. Oltre le
esperienze dei nostri genitori e nonni, ci portiamo dietro le loro emozioni
represse, le prospettive a cui altri si sono opposti deridendoli,
vergognandosi, così come le regole morali che garantiscono a tutti di essere
ben visti nella famiglia. Norme che, per altro, potrebbero essere molto diverse
nelle famiglie d’origine di mamma e papà. Abbiamo in noi l’intero e tutti i
frammenti, in quanto siamo l’unione di mamma e papà. Quei conflitti esterni
esistono quindi anche dentro di noi e non importa dove andremo: ce li porteremo
dietro fino a quando non troviamo il modo di conciliarli in noi, prendendoli
così come sono entrambi, con pari dignità ed andando oltre. Avendo questi
valori del nostro gruppo, valori unici per ogni famiglia, finiamo per litigare
con gli altri, che ne hanno di opposti. Il modo in cui la morale si manifesta è
il giudizio: reputiamo positivo ciò che si allinea con le regole del nostro
gruppo di appartenenza e negativo ciò che nella nostra famiglia verrebbe
escluso. In questo senso, tutti i giudizi che esprimiamo, non sono nostri: è
l’inconscio familiare attraverso di noi. Quando litighiamo con il nostro
partner per il disordine, non siamo veramente noi a farlo, è piuttosto la
nostra famiglia o uno dei suoi membri a parlare attraverso di noi. In quel
momento non vediamo l’altro, egli ci rappresenta nostro padre, oppure il noi
bambino a cui è stato intimato di mettere ordine. In quel momento, attraverso
di noi, si esprime la voce di nostra madre, o forse di nostro padre, che
minaccia l’altro di una punizione. Quindi, ad ogni lite, impieghiamo energia e
sacrifichiamo la nostra felicità per metterci a servizio della nostra famiglia,
che emergendo sulla cima della piramide acquisisce il connotato di “io” e con
essa ci identifichiamo. Talvolta l’altro ci rappresenta una parte del nostro
sistema frammentata dal resto, così come noi recitiamo l’altra. Insieme
mettiamo in scena un copione antico, un vecchio conflitto e tutto questo non si
risolve finché non riconosciamo appartenenti a noi entrambi. Una nonna che ha
subito le umiliazioni e vessazioni del marito, potrebbe essere rappresentata da
una nipote nel continuo tentativo di rivalsa sull’altro. Quando la nipote sente
l’altro esercitare potere, dire qualcosa che lei ritiene umiliante, potrebbe
tirar fuori tutta la rabbia repressa della nonna. In quel motivo non vede il
compagno, incontra il nonno dalla prospettiva della nonna e le emozioni che lei
ha tenuto dentro la attraversano, permettendogli di fare qualcosa di diverso.
Il fatto è, però, che il proprio compagno non è il nonno e che dietro il suo
comportamento si celano comunque le sue morali familiari e i suoi imprinting.
Se questo non viene visto ci si costringe ad una lotta senza fine. Inoltre, il
nonno, è parte della famiglia e fino a quando non verrà accolto e riconosciuto,
ci sarà la tendenza a incontrare sempre persone che ce lo rappresentino. Poco
importa se veramente lui replica quegli schemi, oppure se è solo un
fraintendimento, una svista, comunque continueremo a vivere interiormente quel
copione e l’altro ci rappresenterà ciò che escludiamo. Persino il modo in cui gli
altri hanno percepito le cose ci influenzano: se tutti nella nostra famiglia
hanno sentito il lavoro come pesante e difficoltoso è possibile che anche noi
lo viviamo allo stesso modo. Se le relazioni amorose per i nostri genitori e
nonni sono state prive di amore, piene di litigi e nel continuo tentativo di
cambiare l’altro, saremo portati a fare lo stesso. Il vissuto derivante da
queste percezioni arriverà, come detto in precedenza, a modificare anche i
tessuti e pian piano svilupperemo dei disturbi, talvolta addirittura gli stessi
che altri hanno avuto. Non è in questo senso la malattia a tramandarsi, ma il
percepito che attiva quel preciso programma biologico.
Alla base di tutto vi è l’istinto di sopravvivenza, che ci
porta ad appartenere a un “branco”. Quando pensiamo all’uomo siamo tutti soliti
richiamare le immagini moderne, della nostra società attuale, ma la nostra
biologia ed i suoi programmi si sono formati durante tutto il corso
dell’evoluzione. Se osserviamo il nostro corpo è facile notare una differenza
sostanziale rispetto agli altri animali: non abbiamo zanne aguzze, artigli
utilizzabili come armi, né muscoli così spessi da poterci eventualmente
proteggere dagli attacchi dei predatori. Se una tigre, da sola, ha speranza di
sopravvivere, un uomo nella stessa condizione morirebbe in breve tempo. Per
potersi proteggere e facilitare la funzione di nutrimento, l’uomo a sviluppato
una strategia comune a molti animali: la vita in relazione. Essere all’interno
di un branco, dove ognuno ha il suo ruolo ben chiaro e definito, utile alla
collettività, è quanto ci ha permesso di mantenerci in vita. Come ogni branco,
anche il nostro ha delle regole. Da quando è subentrata la morale, però, le
nostre regole si sono molto diversificate ed essergli fedele risulta spesso un
limite. Mentre per gli animali ciò che è biologico è sempre giusto, i nostri
istinti sono stati demonizzati dalla morale e anche atti a servizio della vita,
in cui l’inconscio ci guida, sono costati a molte persone l’esclusione. Ad
esempio, rimanere incinta prima del matrimonio, poteva costituire fino a
cinquanta anni fa un valido motivo per diseredare una figlia e farle perdere
quindi l’appartenenza. Questo però è il mondo delle idee, nettamente diverso
dal piano della realtà, per cui ella avrebbe comunque continuato ad essere
parte della famiglia e la sua esperienza, registrata lì, sarebbe stata
tramandata ai discendenti. L’appartenenza al branco, per come ce l’hanno fatta
passare, è condizionata dal rispetto dei suoi valori. Nonostante questa sia
un’illusione, continua ad essere alimentata generazione dopo generazione,
portando gli individui ad assumere quelle norme e rispettarle, per guadagnarsi
il proprio posto, inconsapevoli che esso è stato già fornito dalla vita. Per
sopravvivere dobbiamo appartenere, per appartenere dobbiamo sottostare a delle
regole e quindi essere buoni. La colpa, l’inflazione di quelle morali, può
costare l’esclusione e quindi la morte. Istintivamente, quindi, cerchiamo
sempre l’innocenza eseguendo i comandi del branco e agendo automaticamente,
senza renderci conto delle conseguenze di questo agire. In altre parole, per
essere buoni sacrifichiamo la felicità, la realizzazione e persino la salute.
Per stare nel “branco” ne assumiamo i programmi e gli
irrisolti. Tutte le idee ed i valori morali che abbiamo in noi sono solo
programmi, così come le convinzioni su come dobbiamo comportarci e cosa invece
dobbiamo evitare di dire, di fare e di pensare. Persino la nostra percezione
delle cose, dei familiari e l’interpretazione che abbiamo dei loro gesti, delle
situazioni che vivono e che viviamo in prima persona, sono manifestazioni di
queste memorie inconsce. Siamo connessi in egual misura a tutte le persone
appartenenti al campo di inconscio familiare, così come a tutte le loro
esperienze, anche quelle conflittuali. Quando la famiglia si è frammentata,
contenendo idee incompatibili e portando ognuno ad escludere l’altra visione, rimane
un irrisolto. In quel caso è possibile che ci facciamo carico di una di quelle
prospettive, rivivendo il destino di quella persona e ciò che l’ha portata ad
essere esclusa, così da dare a lei ed al suo modo di vedere le cose un posto
nella Coscienza. In questo caso, spesso, ci scontriamo con qualcuno che
interpreta necessariamente l’altra metà. Fino a quando siamo incoscienti
riviviamo lo stesso dramma, dall’inizio alla fine e la frammentazione non si
ricompone. Sostenendo una sola delle prospettive alimentiamo la divisione, muovendoci
attivamente con quella parte e opponendoci all’altra metà. In questo caso tutte
le parti in gioco, pur quanto recitino automaticamente il copione per amore,
vivono un tormento interno. In genere si attribuisce all’altro la nostra
sofferenza, ci arrabbiamo con lui, ma così alimentiamo ancora la dinamica. Si
tratta di un loop, giriamo in cerchio all’infinito, fino al momento in cui non
prendiamo consapevolezza di quanto stiamo facendo. Entrambe le parti esistono
in noi e conciliarle all’interno, accogliendole entrambe come manifestazioni di
esperienze diverse, significa trovare la pace. Questo prescinde dall’altro e
dalle sue mosse, possiamo farlo semplicemente comprendendo l’altro. Il termine
comprendere è composto da due parole: cum e prehendere. Cum significa Insieme e
prehendere è l’atto attivo di assunzione, di accoglienza. Comprendere significa
quindi, letteralmente, “prendere insieme”. Quando utilizzo questa parola,
quindi, mi riferisco ad un atto tutt’altro che passivo: l’atto di prendere nel
proprio cuore due cose apparentemente opposte e integrarle in una visione di
insieme. Talvolta è sufficiente scostare lo sguardo dal nostro punto di vista
per accorgersi che anche l’altro ha ragione, tanto quanto noi. Ognuno ha un motivo
preciso per pensare ciò che pensa, per dire ciò che dice e interpretare le cose
in quel modo. Potrebbe, esattamente come noi, rappresentare una metà di un
irrisolto familiare e prendendo il suo punto di vista insieme al nostro
possiamo tornare integri. Così si esce dalla frammentazione: riconoscendo i
frammenti come parti di un unico insieme ed entrando in sintonia con la
coscienza neutrale che li unisce entrambi. Fino a quando ci sono delle morali e
siamo inclini a ricercare di essere “buoni”, seguendo quelle norme”, tenderemo
a non vedere il quadro completo. Tali idee ci mantengono nel mondo dell’immaginazione,
della supponenza, creando distanza dalla realtà che è semplicemente com’è. Se
violiamo le norme del branco ci sentiamo in colpa, mentre se eseguiamo quei
programmi viviamo una piacevole sensazione di innocenza. Anche sostenere qualcuno
che si trova in colpa, secondo i dettami del nostro “branco umano”, significa diventare
colpevoli. Quindi, per sentirci buoni, tendiamo ad escludere tutto ciò che la
morale del gruppo di appartenenza escluderebbe. Non si tratta solo di una
morale familiare, ma qualsiasi altra morale acquisita, qualunque idea di giusto
e di sbagliato. In questo senso pretenderemo che gli altri abbandonino le
proprie morali, per affiliarsi alla nostra. Imponiamo agli altri ciò che è
stato sottilmente imposto a noi: seguire le regole come condizione per
appartenere. In tutto questo, però, dimentichiamo che l’altro appartiene già ad
un gruppo che ha la priorità: quello che gli ha dato la vita e gli ha permesso
di sopravvivere fino a oggi. Quindi gli chiediamo di “rinnegare il suo nome”
come direbbe Giulietta a Romeo. In pratica gli chiediamo di fare il contrario
di quanto stiamo facendo noi, di entrare in colpa rispetto al gruppo di
origine, per essere innocente ai nostri occhi. Insomma, mentre noi rimaniamo
ben saldi alle regole e ancora più appartenenti, chiediamo all’altro di
rinunciare allo stesso vantaggio. Lo facciamo ogni volta che discutiamo con una
persona che non la pensa come noi, che per i nostri canoni si è comportato male.
In quei momenti, ciò che non vediamo, è che il nostro rimprovero è mosso dalla
stessa forza che ha portato lui ad agire così. Ognuno si sente migliore dell’altro,
ma è esattamente uguale a lui, semplicemente al servizio di morali differenti.
Il senso di colpa serve per farci rimanere nel branco e
legati alle persone. Tutti desideriamo l’innocenza e rifuggiamo la colpa, senza
sapere perché. La colpa ha un senso ben preciso, così come l’innocenza. Sono
servi di un unico padrone: la morale presa per appartenere. Essi hanno pari
dignità, sono utili allo stesso modo, così come lo sono il freno e l’acceleratore
per una macchina. La colpa è un freno, ha una funzione correttiva rispetto all’azione
che stiamo facendo. Quando ci sentiamo in colpa blocchiamo l’azione che stiamo
facendo, oppure addirittura ci fermiamo prima di compierla. Tutto questo è
stato fino a ora fondamentale per la sopravvivenza, in quanto l’esclusione
significava morte ed era la punizione per chi violava le norme del gruppo. L’innocenza
invece è un acceleratore, ci porta a continuare su quella strada e portare avanti
l’azione, in quanto conforme al nostro gruppo di appartenenza o ad un suo
frammento. Chi porta avanti un’azione, quindi, lo fa sempre con innocenza,
nonostante non sia cosciente delle conseguenze e di cosa tale azione produce realmente.
Ognuno è mosso dalle proprie norme di appartenenza ed essendo una spinta
inconscia non prevede che l’altro possa sentire la stessa cosa. Poiché l’inconscio
familiare è completamente frammentato, così come quello globale, è chiaro che sostenendo
una parte se ne viola necessariamente altre. Quindi, nella stessa azione,
saremo innocenti per qualcuno e in colpa per qualcun altro. La priorità è in
genere per la coscienza di chi ci ha permesso di essere in vita, quindi non
solo i genitori, ma anche tutte quelle persone che hanno permesso a loro di
essere qui. Per innocenza ci facciamo carico di quel tassello, magari escluso o
in conflitto con gli altri, così ci condanniamo a rivivere quelle sofferenze,
oppure quelle esperienze. Quindi, in conclusione, l’intero nostro vissuto è
scaturito dall’assunzione di morali, prospettive e destini non nostri, presi
per guadagnarci l’appartenenza e quindi sopravvivere.