"Un cammino di ricerca" di Ambra Guerrucci


Perché hai scelto di intraprendere un cammino di ricerca?

In realtà non è stata una scelta, la mia intera vita è stata una ricerca e non riesco a immaginarla diversamente. Sono sempre stata un inguaribile curiosa, alla ricerca di verità sempre più elevate e con molte, fin troppe domande alla quale trovare una risposta soddisfacente, che non sono mai riuscita a trovare all’esterno di me, quindi, ho dovuto imparare a guardarmi dentro, a trovare una risposta alle mie domande con l’esperienza, visto che le parole non riuscivano a dissetare la mia sete di conoscenza. La mia ricerca nasce essenzialmente dal bisogno di tornare a vedere la realtà obbiettivamente, è quel bisogno di vedere e sentire la verità, di trovare la beatitudine che ho perso crescendo insieme alla purezza e unità del mio essere...


Parlaci della tua infanzia

Prima di parlarvi della mia infanzia, devo raccontarvi di un fatto strettamente legato ad essa. Nelle mie due vite precedenti sono vissuta e morta in uno stato di meditazione, e per stato di meditazione non intendo facendo yoga o tecniche trascendentali, ma semplicemente in piena presenza e osservazione, in azione senza azione, nello stato che i taoisti chiamano wu wei, ovvero la naturalità senza giudizio e interferenze dell’ego. Morire in questo stato mi ha consentito di scegliere la mia nascita, vivere consapevolmente la gravidanza e i primi anni della mia vita. Sono cresciuta molto velocemente in confronto ai miei coetanei, ho iniziato a parlare, camminare, leggere e scrivere molto più velocemente dei miei coetanei. Ho vissuto la mia intera infanzia in comunione con l’esistenza, senza una volontà personale o una personalità, vivevo dentro al flusso dell’esistenza, mutando ogni secondo in simbiosi con la coscienza universale. Mi sentivo ovunque, dentro ogni essere facevo esperienza e vedevo, in ogni cosa esistente, la mia fiamma, non un’altra uguale alla mia, ma la stessa, un solo centro che fa esperienza attraverso mille personalità, per creare miliardi di coscienze individuali che con le loro stesse esperienze arricchiscono, fluendo in essa, la coscienza obbiettiva.


Come hai fatto a cadere nell’illusione?

Ho iniziato ad involvere nel momento in cui ho scoperto che nessuno vedeva e percepiva ciò che sentivo. In quel momento mi sono convinta di essere in errore, tanto da rinchiudermi nel dolore e nel rifiuto della mia essenza. Fino ad allora davo candidamente per scontato che tutti fossero come me, vedessero la realtà che vedevo io, le energie, i colori e che sentissero le vibrazioni. Poi, all’età di 10 anni, parlando con un’amica, mi resi conto che non sentiva la musica che sentivo io, che non guardava il mondo con la meraviglia con cui i miei occhi scrutavano ogni cosa, e che non sentiva le altre persone come parte di se. Questa è una delle esperienze più devastanti che io abbia mai attraversato, tutte le mie sicurezze crollarono, la mia voglia di vivere andò scemando e si fece pesante il senso di non appartenenza a questo mondo.


Che cosa ti ha riportato sulla strada della ricerca?

In realtà non ho mai lasciato la ricerca, ha solo preso una piega diversa, ma niente è inutile e ogni esperienza è fondamentale per la nostra crescita. Per un po’ ho dubitato di me e della realtà in cui avevo vissuto la mia infanzia, ma dopo non molto tempo mi sono trovata di fronte a forti esperienze che hanno sciolto ogni dubbio. Tutto questo mi è servito a prendere maggiore coscienza, dopotutto il moto d’apprendimento della coscienza è una spirale infinita, fatta di cadute e risalite verso ottave vibratorie sempre più elevate.


Puoi descriverci una di queste forti esperienze?

Vi descriverò la prima esperienza dopo la mia “caduta”: ero in prima media e la classe era immersa in un insolito silenzio, stavamo facendo l’ultimo compito prima delle vacanze estive, iniziai a sentirmi sempre più leggera fino a provare la sensazione di galleggiare nell’aria, ma niente intorno a me era cambiato e il corpo giaceva immobile sulla sedia. Ad un tratto il mio corpo tremò dai piedi alla testa e in mezzo al mio petto sentii un’enorme scossa, che si trasformò in pochi secondi in un intenso bruciore, il mio cuore inizio a battere fortissimo tanto da farmi pensare che sarei morta. Aprii gli occhi e vidi chiaramente irradiarsi dal mio petto una luce verde brillante, che lentamente riempiva la stanza e si espandeva anche al di fuori; vidi tutti i miei compagni rilassarsi, le loro spalle scesero lentamente, i muscoli del viso smisero di essere contratti e una grande pace coinvolse tutti i presenti, tutti tranne me che in preda al panico chiamai mia madre che prontamente venne a prendermi. Appena arrivai a casa il dolore scomparve, ma in mezzo al petto si presentò il disegno di un fiore verde a 12 petali con in mezzo un simbolo che non se ne andò prima di una settimana.


Hai incontrato molte difficoltà nel tuo percorso?

Devo ammettere di no, l’unica difficoltà, se così possiamo chiamarla, è il dolore di provare dei samadhi, momenti di fusione con l’esistenza e di tornare poi alla coscienza soggettiva, intrappolati nei meccanismi della personalità e totalmente persi nella mente. Spesso usiamo le parole “io ci sono”, ma nessuno c’è mai, nessuno è mai davvero presente a se stesso, alle sue emozioni, ai suoi pensieri, al suo corpo e alla sua coscienza, le persone vengono totalmente risucchiate dalla mente, la loro coscienza calamitata e identificata nei pensieri. Non sono d’accordo con chi demonizza la mente, che ritengo un ottimo strumento per elaborare la realtà, ma solo quando viene ripulito dalla spazzatura può essere utile. Come tutti gli strumenti se non viene usato in modo corretto sarà lui ad usare noi; pensate a un trattore, è uno strumento utilissimo se sopra c’è un uomo che lo guida, ma se fosse il trattore a stare sopra l’uomo? Diventerebbe dannoso, così come è dannoso farsi assorbire totalmente dalla mente. Alle persone succede continuamente di perdere il controllo delle emozioni e della razionalità, ma non se ne rendono conto, quando succede a me, essendo spesso in osservazione me ne accorgo, e vi assicuro che è a dir poco spiacevole, ma è un’utile spinta per proseguire il cammino.


Ci sono persone con cui condividi questo percorso o hai intrapreso un percorso solitario?

Un po’ entrambe le cose, ho molti amici e un meraviglioso compagno con cui condivido le mie esperienze, ma allo stesso tempo non chiedo mai a nessuno di avere fede nella mia verità, perché le conoscenze prese in prestito, e non derivate dalla diretta esperienza, valgono davvero poco. Con questo non voglio affermare che il tempo dedicato alla lettura sia tempo sprecato o ascoltare gli altri sia nocivo, personalmente ho letto circa 3000 libri, ascoltato il parere di molte persone, e in ogni storia ho trovato perle di inestimabile saggezza, ma non avrei potuto comprenderle pienamente se anche io non avessi avuto le stesse esperienze. L’approccio che consiglio a chiunque mi ascolti è di non avere fede in me, ma neppure di scartare a priori ciò che vi dico, semplicemente siate scientifici, prendete le mie parole come ipotesi e attraverso l’auto osservazione sperimenterete ciò che ho sperimentato io.


Da dove partire per sperimentare?

Il primo esercizio che consiglio a tutte le persone consiste nel provare a mantenere la concentrazione sul respiro, senza cambiarlo o interagire con esso, solo osservarlo durante tutto il quotidiano, qualsiasi cosa stiate facendo. Questo esercizio che sembra molto semplice serve a farvi capire quanto sia difficile mantenere l’attenzione focalizzata, anche per persone con molta esperienza meditativa alle spalle, e dato che l’attenzione è ciò che direziona l’energia, osservare il respiro vi porterà ad energizzare tutto il corpo nel giro di pochi giorni.


Segui le persone nel loro percorso spirituale, come ti definisci? Ti senti una maestra?

Assolutamente non mi definisco una maestra, il mio obbiettivo è abbattere l’illusione della separazione, smettere di identificarmi con i ruoli che ho in questo gioco cosmico e invitare le persone a fare lo stesso. Farmi chiamare maestra avrebbe il significato di essere distaccata dalle persone che interpreterebbero il ruolo di discepoli, e pormi ad un livello di superiorità, cosa che sinceramente ritengo sciocca, dato che nei momenti in cui vedo la realtà oggettiva percepisco tutto all’interno della coscienza, un’unica coscienza che contiene l’esistenza intera, un grande coro in cui ognuno suona la sua musica unica, inimitabile e perfetta. Normalmente ci identifichiamo con la nostra musica perché abbiamo dimenticato che in realtà non siamo solo quella, ma l’intero coro e con questa consapevolezza non potrei mai considerarmi superiore a niente e nessuno. Posso quindi affermare che non ho ne avrò mai discepoli, ma chiunque lo voglia può diventare un mio compagno del viaggio di ritorno verso casa, imparando l’uno dall’altro in totale rispetto ed accettazione. Per completare la mia risposta aggiungo che non mi identifico in alcun modo, non mi etichetto perché le definizioni sono morte, limitano la libertà dell’essere, la vita è un flusso, un continuo cambiamento che non può essere definito in una parola statica.


Per finire siamo tutti curiosi di sapere se hai un sogno nel cassetto…

Col sorriso stampato in volto ti dico che il mio sogno non entrerebbe in un cassetto, è ovunque, nel cuore di qualsiasi persona consapevole, nell’amore del divino: un umanità pienamente consapevole di se, che viva in simbiosi con l’esistenza, senza resistere al flusso della vita che considero l’unica vera grande maestra. Un’umanità fatta di persone non più come radici che hanno bisogno di “succhiare” dagli altri l’energia e le risorse per vivere, bensì un umanità fatta di frutti, persone pronte a donarsi a chiunque, a dare incondizionatamente, con il cuore aperto, che amano anche le persone meno facili da amare; un mondo di persone centrate nella coscienza obbiettiva, prive di ego, che agiscono per il bene comune, consapevoli di essere solo nel fisico separati dagli altri, che si prendono la responsabilità della loro vita, di ciò che accade, prive di giudizio e che guardano il mondo con la meraviglia di un bambino, anche da anziani.