"I 5 Ostacoli della Consapevolezza" di Ambra Guerrucci


L'espansione della consapevolezza può essere qualcosa di costante, ma per renderla tale ci sono degli atteggiamenti automatici da lasciar andare. 

1) La lamentela. Essa si basa sull'idea che esista qualcosa di meglio e qualcosa di peggio, possibilità più dignitose ed altre che lo sono meno. Inoltre, lamentandoci, diamo per scontato di non avere controllo sulla situazione, rifiutando non solo la responsabilità, ma anche il potere di cambiare le cose. La lamentela nega a priori che siamo responsabili di ciò che viviamo, cosa che ci porterà a continuare ad agire allo stesso modo, ottenendo sempre gli stessi risultati. Quando ci lamentiamo, con una sola frase, riusciamo a dare per scontato tante cose, rafforzando in noi stessi e negli altri l'illusione di una vita determinata da forze sconosciute (Dio, il caso, il destino) e su cui non abbiamo alcun controllo. 

2) La giustificazione. Anch'essa, assieme alla lamentela, è una delle più diffuse abitudini che ci mantengono nei nostri loop. A proteggere la nostra posizione ci sembra di guadagnare qualcosa, ma cosa perdiamo? La possibilità di fare qualcosa di diverso e di aprire gli occhi su quei meccanismi che fin ora hanno gestito la nostra vita. Giustificarsi significa non voler aprire gli occhi sulla realtà e sostituire la visione degli effetti che concretamente hanno le nostre azioni con dei semplici pregiudizi. Le giustificazioni mentali servono a discolparci, a farci evitare il senso di colpa e il dolore a cui il nostro agito ci espone. Spesso suona come un premio di consolazione "ho perso questa persona a me cara, sto malissimo, ma almeno avevo ragione" oppure ci aiuta a raccontarci cose non vere, con l'intento di convincercene "ho fatto bene a troncare quell'amicizia, perché quello era uno stronzo". Lo scopo, comunque, è quello di anestetizzare il dolore a breve termine, con il limite però di produrne ancora e ancora sul lungo periodo. 

3) Dare per scontato che i nostri valori siano gli unici o comunque i migliori. Anche questo è tipico: negli altri ci piacciono i nostri valori e detestiamo quelli diversi dai nostri. Spesso, le amicizie, si basano sull'illusione che l'altro sia simile a noi e quando emergono le diversità il legame si spezza. Questo significa che quella presunta amicizia era un vincolo di fedeltà e per questo, una volta crollata l'illusione della similitudine, l'altro viene visto come un traditore. Quando conosciamo qualcuno è facile idealizzarlo, proiettando su di lui i nostri stessi lati di luce, i nostri "devo", quelle regole morali che crediamo elementi costitutivi del valore della persona. L'altro ci parla e siamo a caccia di ciò che ci rende uguali, sottolineando questi aspetti, così da creare una sintonia. Più ci si frequenta, più iniziano ad emergere le differenze e lì, se tutto era basato sulla fedeltà, insorgono i problemi. Quando parlo di fedeltà mi riferisco a quel patto inconscio che facciamo sin da piccoli, con il gruppo che rappresenta per noi il clan, quell'insieme di persone che sostiene e facilita la nostra vita. Il clan è stata la strategia di sopravvivenza dell'essere umano, per sopperire alla mancanza di artigli affilati, denti aguzzi e muscoli in grado di proteggerci dagli attacchi dei predatori. Per sopravvivenza abbiamo l'istinto di captare le idee del clan, ciò che agli occhi degli altri ti rende migliore e ciò che invece ti fa ritenere peggiore, colpevole, quindi potenzialmente escludibile. Questi valori possono essere gli stessi dei nostri genitori, oppure potremmo aver rinunciato a quell'appartenenza a causa dei sensi di colpa latenti, finendo per sostituire quel clan originale con un altro diverso e con morali più facilmente rispettabili per noi. Ad ogni modo, ognuno di noi, conserva in sé questo codice morale, che sarà quindi diverso per ogni famiglia, per ogni gruppo e modellato altresì dalle esperienze dei suoi membri. Come noi abbiamo dovuto corrispondere a questi valori per appartenere, ci aspettiamo che gli altri facciano altrettanto, che ci siano fedeli, anche a costo di rinnegare i propri. Il nostro clan viene visto come il migliore, mentre gli altri sono rivali e ciò che ci distingue è una colpa, che ci porta a dover escludere l'altro. Tutto questo è un meccanismo atavico, di cui siamo a servizio senza rendercene conto e che ci porta a perdere cose, persone, a limitarci, anziché agevolare la vita e la felicità. 

4) Scegliere noi o scegliere l'altro. Sin da bambini ci troviamo di fronte a una dualità, a una richiesta del mondo contrapposta a una interna. Gli altri, da fuori, raramente riescono a sentire i nostri bisogni e più spesso ci portano di fronte i loro, senza chiederci come li viviamo. Ci troviamo quindi, sin da piccoli, costretti a scegliere se ascoltare noi stessi o dare ragione all'altro, se seguire il nostro bisogno interno o la richiesta esterna. Raramente ci insegnano a mediare tra queste istanze e ancor più raramente ci accompagnano a riconoscere e rispettarle alla pari. Molte persone, per proteggersi, imparano a contemplare a loro volta solo loro stessi e portare avanti le proprie necessità, senza fermarsi a riflettere su quelle altrui. Altre, ritenendosi più dipendenti e bisognose di approvazione, scelgono di essere accondiscendenti con gli altri, al punto di perdere persino contatto con quella voce interna che ne tutelava le necessità individuali. In realtà, ovunque ci siano due pareri contrapposti, due istanze diverse, esiste una verità oggettiva che le include entrambe. Ognuna ci sarà per un motivo ed è possibile rispettarla, riconoscendo a entrambe pari dignità. 

5) Fare le vittime. Questo punto è in parte legato alla lamentela, in parte alla giustificazione e sicuramente sorretto dalla sensazione di essere migliori degli altri. Fare la vittima significa porsi su un piedistallo e utilizzare, come premio di consolazione, quel dolore per sentirsi migliori di qualcuno: il carnefice. Si può essere vittima di qualcuno, di una categoria, delle circostanze e tutto questo serve per evitare di sentire pienamente quel dolore provato. Invece di immergersi profondamente nella sensazione, i pensieri vittimistici ci distraggono e addolciscono "la pillola" con il pensiero di essere migliori di qualcuno, di aver quindi più diritto di lui di esistere, di essere nel mondo e far parte della comunità. Sebbene a livello di meccanismo risulti utile come anestesia, ha però dei limiti ben definiti, primo tra tutti quello di trattenere la ferita interiore. Il dolore originario, ormai mischiato con l'adrenalina data dalla rabbia della vittima, viene ritenuto gradevole e per questo mantenuto all'interno della persona. Lasciar andare il dolore significherebbe dover scendere dal piedistallo e non sempre ciò è ritenuto desiderabile. Da quella ferita, inoltre, saranno nati anche dei meccanismi di difesa, come quello di punzecchiare le persone per vedere fin dove possono arrivare, oppure vendicarsi a piccoli bocconi attraverso il parlare alle spalle. Potrebbe accadere addirittura di spostare la rabbia non più sul proprio carnefice, ma sull'intera categoria, innescando guerre che non portano a niente. Questi meccanismi hanno delle conseguenze e spesso ci conducono a ferire persone che non c'entrano niente con la nostra ferita, oppure a rimanere nella sofferenza anziché imparare dal passato e andare avanti. 

Questi cinque comportamenti abitudinari ci sabotano la vita, le relazioni, mantenendoci nei circoli viziosi che ben conosciamo. Riuscire a uscire da questi ci permette non solo di aumentare la nostra consapevolezza, di vedere più in profondità dentro di noi, ma anche di incamminarci verso l'abbondanza anziché rimanere nella perdita, nell'esclusione e nella privazione come prezzo di questi meccanismi.